In Arabia Saudita nella giornata di sabato c’è stato un duplice attacco condotto dal cielo con droni armati. Sono stati danneggiati il più grande stabilimento mondiale di lavorazione del petrolio di e Abqaiq ed un impianto di estrazione a Khurais. Ancora non si conosce quale sia la reale consistenza dei danni e se questi potranno essere riparati rapidamente. L’Arabia saudita ha dichiarato che nell’impianto è stata sospesa la produzione. Gli Huthi dello Yemen, che stanno conducendo un lungo e sanguinoso conflitto con l’Arabia Saudita e i paesi che sostengono la coalizione, hanno dichiarato di essere gli autori. L’evento è significativo perché può avere ripercussioni sul prezzo del petrolio quando si riapriranno i mercati e alterare l’attuale assetto del mercato che finora è rimasto legato a quotazioni basse. Inoltre, l’evento solleva interrogativi su quali siano le “effettive” capacità militari degli Huthi e gli autori reali dell’attacco.
Lo stabilimento di Abqaiq lavora una quota rilevante della produzione giornaliera del petrolio saudita che ammonta a circa 9,8 milioni al giorno. Di fatto la produzione giornaliera verrebbe dimezzata. È quindi un importante obiettivo strategico quello colpito dagli Huthi. Se l’attacco fosse attribuibile agli Huthi, come rivendicato, vorrebbe dire che disporrebbero di droni in grado di colpire a una distanza di circa 1000 chilometri. Questo fatto costituirebbe un escalation militare sicuramente non marginale. Il segretario di stato americano Mike Pompeo ha avanzato l’ipotesi, considerato il fatto che i droni non sono stati intercettati dal sistema missilistico Patriot, che l’attacco possa essere provenuto da altri territori per esempio Iraq e Iran. Tutti e due i paesi hanno smentito.
Comunque siano andate le cose, l’attacco rischia di aumentare la tensione nel golfo e rende ancora più probabile la possibilità di qualche scontro armato.
Intanto come effetto immediato dell’attacco potrebbe registrarsi un’impennata dei prezzi del petrolio. È ormai da diversi mesi che la quotazione del petrolio Brent dopo alti e bassi si è stabilizzata intorno ai 60 dollari. L’Opec sta cercando, in primo luogo con la leadership saudita, e l’ausilio russo di far salire le quotazioni che hanno una quotazione troppo bassa soprattutto per gli equilibri economico finanziari di questi paesi i cui bilanci nazionali dipendono dal prezzo del petrolio. L’attacco sicuramente danneggia l’Arabia saudita ma paradossalmente potrebbe anche aiutarla nello sforzo di far salire le quotazioni del greggio a lungo cercato e mai raggiunto.
Gli USA per evitare un’impennata dei prezzi hanno annunciato che possono essere eventualmente impiegare le riserve nazionali di petrolio in modo da attenuare le ansie dei mercati relativamente ad una caduta della produzione. La caduta della produzione dovrebbe essere nel breve periodo assorbita dalle scorte americane e saudite e anche eventualmente di altri paesi. È certo che gli Stati Uniti e in particolare il presidente Trump non hanno alcun interesse che avvenga un impennata dei prezzi e faranno di tutto per evitare un evento di questo genere che oltretutto potrebbe accendere anche l’inflazione soprattutto nei paesi europei che più degli altri dipendono dal petrolio. L’attacco allo stabilimento saudita rende evidente una escalation nel conflitto tra Arabia e Yemen che potrebbe accendere tensioni pericolose non solo militari ma anche riflettersi sugli equilibri economici del mercato del petrolio facendone lievitare prezzi. Inoltre, gli effetti potrebbero estendersi ai rapporti con l’Iran e alimentare ulteriori situazioni pericolose. Qualora, poi, i danni prodotti dall’attacco dovessero comportare riparazioni degli impianti e una sospensione prolungata della produzione, si potrebbero avere quotazioni dei prezzi del petrolio in forte aumento. Questo scenario potrebbe rappresentare un ulteriore carico per le economie occidentali ed in particolare europee in cui i segnali di recessione si moltiplicano.